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  • Immagine del redattoreCristina Rotellini

Caregiver *: una lettera d'amore.




Di questo piccolo esercito silenzioso non si sa molto. Perché a noi non piace parlare di noi.

In questo momento però io sento il dovere e la voglia di pensarvi. Di scrivervi e farvi sapere che io vi sento. Ho bisogno di unire la mia solitudine alla vostra, voi che siete là da qualche parte nel mondo. Invisibili a molti, ma presenti e instancabili. O perlomeno così ci piace pensare di essere.

"Faccio questa ultima cosa e poi mi riposo. Sto ancora un altro po' qui con lei e poi vado a farmi una bella doccia, giuro."

E poi, invece, non mi riposo quasi mai, piuttosto crollo nella vecchia poltrona che è diventata ormai un secondo letto di fortuna. E vi vedo, tutti lì a farvi la doccia con il timer, quando capita, tra la prima medicazione e l'ora delle medicine, dopo aver messo la terza lavatrice, a cavallo fra una bolletta che scade e l'orologio che corre. Perché anche io sono lì, come voi.

L'eco della nostra voce ci parla nella testa tutto il giorno, spesso é la sola compagnia che abbiamo.

Siamo abituati a essere un po' soli, ma in questo momento forse lo siamo ancora di più.

Il lockdown ha intaccato i nostri già instabili salvagente.

Il caffè con l'amica che ci salvava la giornata non c'è, il mondo combatte un mostro più grande delle nostre quotidiane difficoltà e ogni richiesta di aiuto ci sembra che cada nel vuoto.

Vuota ci sembra a volte la nostra esistenza, abituati a prenderci cura di chi non può più farlo da solo, ma non di noi stessi.

Non ci chiediamo 'come stai' perché temiamo la risposta.

E quando ce lo chiedono rispondiamo quasi sempre bene. O diciamo la verità, ma ci premuriamo di coprirla subito con frasi-cerotto, tipo "..ma insomma mi accontento/ resto positiva / le cose mi sembrano migliorare."

Siamo stanchi eppure dormiamo male. Lavoriamo tutto il giorno, facciamo sempre gli straordinari e non ci sono ferie, né retribuzione.


Non ci fa schifo né imbarazzo più niente, perché ci siamo abituati ad avere a che fare con la realtà ruvida e nuda delle cose. La nudità delle persone. Che non è la nudità fisica del corpo, ma quella dell'anima e della dignità, del dispiacere e della vergogna, della perdita dell'indipendenza. Nostra e loro.

Chi un tempo ci ha cresciuto ora ha bisogno di noi per cambiarsi il pigiama, lavarsi o portarsi la forchetta alla bocca. E non sappiamo dire a chi fa più male tutto questo: se a noi, guerrieri fragili senza scudo, o a loro, anime delicate di un mondo al tramonto.


Ogni tanto ci guardiamo allo specchio ma non ci troviamo, abituati come siamo a portare quel bel sorriso appeso alla faccia, per celare il dolore e regalare luce a chi sta peggio di noi.

Ci guardiamo bene dal piangere e dal farlo di fronte a qualcuno, lo facciamo in un angolo

in disparte e comunque solo per il tempo strettamente necessario. Ci sentiamo quasi in colpa per quelle lacrime, abituati a vedere la sofferenza di chi ogni giorno lotta con la disabilità, la malattia, la vecchiaia, la paura di essere arrivati alla fine.


Siamo dentro alla ruota che gira, persi dentro una vita non ci riconosce più, tanto sono labili i confini tra quello che siamo e quello che facciamo. Abbiamo paura di restare a piedi.

Così odiamo noi stessi perché non facciamo di più, perché non otteniamo più risultati e non raggiungiamo più obiettivi, come chi non ha dovuto scegliere di ritrovarsi così, come una giovane vecchia che ha parcheggiato sé stessa sul retro. In divieto di essere e desiderare.


Se non fosse per quella flebile voce lontana, che mi ricorda che questo amore senza riserve é il più prezioso regalo da poter vivere nel viaggio della vita, forse non sarei cresciuta così tanto nella consapevolezza e nel rispetto delle altrui scelte e libertà.

Forse ora vivrei nell'Ego, nel giudizio e nella povertà di spirito.

Forse essere un punto di appoggio, un aiutante invisibile, mi ha insegnato cosa significa vivere con un scopo profondo, che va oltre l'autoaffermazione e la ricerca di una ricompensa.


La carriera di un caregiver é un giro a vuoto. Non si ambisce alla promozione e la sola speranza per il nostro caro é di non fare passi indietro né farne troppi avanti...

Non esiste pensiero logico che ci aiuti ad immaginare cosà ne sarà di noi e di loro nel futuro.

Non ci pensiamo, ci aggrappiamo al presente, che a volte sono briciole, ma sono briciole di un pane buono. Fatto in casa. E ce lo facciamo bastare.


E se questo triangolo di vita a volte ci sta stretto, concediamoci di arrabbiarci, di urlare la nostra frustrazione. Non saremo persone cattive, ci servirà a sentirci esseri umani ancora vivi, meno annichiliti, meno soli. Ci sembrerà di aver conservato quel seme di sano amor proprio che temevamo aver perso per sempre.




* 'Il caregiver familiare è colui che si prende cura – al di fuori di un contesto professionale e a titolo gratuito – di una persona cara bisognosa di assistenza a lungo termine in quanto affetta da una malattia cronica, da disabilità o da qualsiasi altra condizione di non autosufficienza.'

Fonte: www.osservatoriodiritti.it









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